venerdì 12 agosto 2011

“Forme di vita”, tra realizzazione e fallimento

Che cosa definisce la realizzazione oppure il fallimento di una vita?
Anders Breivik, il pluriomicida norvegese, ha scritto nel suo diario: “se sentissi che qualcun altro potesse portare avanti la mia missione, mi dedicherei a crearmi una famiglia e a sviluppare una carriera professionale”. Questa affermazione coglie due dimensioni fondamentali della vita: il mondo degli affetti e quello degli affari, il fondamentale bisogno di amare e quello di fare.
Ma come coniugare questi due verbi? Sotto quale forma esprimerli nel corso della vita?
Siamo sottoposti a potenti forze che indirizzano e orientano le scelte circa le modalità di espressione dell’amare e del fare. Io sono cresciuto, per esempio, insieme all’immagine della famiglia del Mulino Bianco: la mamma insegnante, il papà giornalista, i due figli e un nonno che abitano nel mulino di campagna perfettamente ristrutturato. In questa rappresentazione, entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo della mia generazione, si è condensato l’idealtipo della realizzazione: la vita coppia, la generazione di figli, il lavoro, meglio se di rilievo. L’ipotesi implicita è che produrre ricchezza e figli dentro un setting famigliare sia la condizione per la realizzazione, per la felicità. Riuscire in ciò significa stare nel ‘giusto’, non riuscirci comporta l’incompiutezza, la parzialità, ovvero, se fosse su tutti i fronti, il fallimento.
Poter disporre di ‘forme’ e di ‘modalità’ attraverso le quali perseguire i bisogni è importante; attingere ad una preselezione di possibilità è necessario, ma senza scordare che la forma rimane forma, non comporta automaticamente la sostanza.
Invero, i criteri di valutazione che vanno per la maggiore si fermano spesso sulla forma, spesso invitano alla rincorsa di obiettivi che danno riconoscimento economico e sociale ma che non soddisfano i bisogni fondamentali: si può trovare un partner, generare dei figli, costruire una carriera professionale e alla fine trovarsi tra le mani dei contenitori clamorosamente vuoti. Anzi, spesso il tutto pieno della vita diventa funzionale a non vedere il vuoto. Ci si ritrova, dunque, adempienti alle richieste del contesto, ma non realizzati. Utilizzando le parole di Vasco Rossi, "non basta avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio".
È necessario cambiare punto di vista e porsi, per esempio, la domanda: come può essere utile la mia vita? Questa è una domanda potente, ha la capacità di ‘prendere per le corna’ il tema del senso e del significato dello stare al mondo, della realizzazione. Domanda talmente pertinente da risultare impertinente; troppo diretta all’essenza dell’uomo.
Ritengo che la vita serva se viene spesa e consumata nel mettere a disposizione di coloro che stanno attorno a noi ciò che si ha nel rispetto dei propri limiti, che potrebbe implicare una selezione, anche stretta, dei beneficiari. È, in altre parole, l’assunzione della prospettiva del dono, dell'integrazione e della condivisione, di contro all’affermazione di sé fine a se stessa. Una prospettiva nella quale anonimato, semplicità, quotidianità, contingenza non sono necessariamente indicatori di mancata realizzazione, bensì condizioni necessarie per poter esprimere liberamente e autenticamente se stessi.

Foto: Màscara

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