giovedì 27 gennaio 2011

L’ineluttabile declino e l’attesa della speranza

Benché degradato, ambiguo e contradditorio, preferisco questo tempo rispetto a quello ingessato, fermo e immobile che ha caratterizzato i decenni passati; benché in declino e a forte rischio di 'crollo', preferisco questo tempo perché prefigura nuovi spazi, altri sbocchi, possibilità di espressione.
Proprio in questo periodo dell’anno scolastico mio figlio sta studiando il ‘ciclo della vita’ che vede agire e interagire tre tipologie di esseri viventi: i produttori, i consumatori e i decompositori. Ogni essere vivente, a sua volta, segue un suo ciclo di vita che vede il succedersi di nascita, crescita, riproduzione, deperimento fino alla morte.
Ciò vale anche per le vicende umane.
È finito il tempo dello sviluppo, è finita l’illusione della crescita illimitata, si è chiaramente avviata una fase caratterizzata da ridimensionamento, smantellamento, impoverimento. La fase storica nella quale viviamo sembra avviarsi inesorabilmente verso la fine. Siamo al capolinea.
Tutto ciò prescinde dalla nostra volontà e dalla nostra azione. È un passaggio necessario e inevitabile. E' inutile pensare di cambiare rotta; è inutile ribellarsi; è inutile ergersi a baluardo di qualcosa che non può più essere; insomma è inutile ostacolare un percorso ineluttabile. Ogni forzatura è vana, è energia mal posta, spesa inutilmente.
Non si può né bloccare né governare tale movimento, bensì comprenderlo, anche accettarlo come elemento costitutivo di una ciclicità. Non resta che prenderne atto e starci dentro, accendere la lanterna e vegliare, in attesa d’altro, di ciò che deve venire.
La fine è dramma e generatività. Stefano D'Andrea, enfatizzando questo concetto, afferma che la fine è certezza: “certezza della sofferenza ma anche certezza della speranza. Speranza di un futuro diverso dal passato”. La fine, infatti, avvia una discontinuità, implicando da una parte il venir meno di ciò che c’è, fino alla sua distruzione, dall’altra l'avvio di un processo di pulizia, di chiarificazione e purificazione: lo sgretolamento dei presupposti impliciti dell'esercizio del potere, la dispersione delle ideologie dominanti e, con queste, l’allontanamento di coloro che le rappresentano.
Non possiamo che accettare di vivere in questo tempo, coniugando il nostro contributo al movimento in essere, eventualmente anche solo per ripulire e smantellare ciò che non serve più, che non è più utile e funzionale. Ovvero accettando di attendere, mettersi da parte, lasciando che avvenga ciò che deve avvenire.

Foto: Declino

giovedì 13 gennaio 2011

La potenza e i limiti dell'implicito

Detesto i cliché, le semplificazioni, le facili valutazioni.
Abortire è un omicidio oppure un atto che riduce il danno? Avere molti figli è generosità, apertura alla vita, oppure un atto d’incoscienza? Arruolarsi, andare a combattere e, forse, morire – come è accaduto a Miotto in Afganistan – è eroico oppure buttare la vita al vento?
L’implicito è potente. Traccia i confini tra ‘giusto’ e ‘sbagliato’, impone risposte predefinite alle varie questioni della vita, definisce ‘cosa dire’ e ‘cosa fare’. Indicazioni potentissime, tali da indirizzare le scelte e i comportamenti delle persone.
La disponibilità di regole è un valore: rassicura le persone, risponde all’esigenza di sentirsi ‘a posto' con se stessi e con gli altri. Ma contestualmente le regole rappresentano un ostacolo perché impongono rappresentazioni fisse della realtà, ingessandola. Mi rendo conto dell’ambivalenza, dell’essere io stesso sia beneficiario che detrattore di queste regole: da una parte attento fruitore in modo da risultare adeguato e inattaccabile, dall'altro infastidito dalle loro maglie strette. Detesto infatti ogni costrizione, ogni limitazione della mia espressione e della mia libertà di scelta.
E' chiaro che uscire da queste maglie, cioè optare per linee di vita non allineate e distintive comporta la valutazione, la collocazione nella categoria del ‘bene’, ma soprattutto in quella del ‘male’. Non mi preoccupa la valutazione in sé, che è inevitabile, mi urta la valutazione spicciola e banale, quella che considera 'giusto' o 'sbagliato' il solo fatto di fare o non fare certe cose. La valutazione, invece, deve avvenire rispetto alla capacità o meno di sviluppare serenità e benessere, di fare scelte capaci di creare valore per se stessi e per gli altri. E ciò passa attraverso l'agire conformemente a ciò che si è in sintonia con il contesto di riferimento.

Foto: Remix Bicentenario