venerdì 22 aprile 2011

Disuguali

Tremavo di fronte alla necessità di dover dare il nome a mio figlio. Nell'azione del nominare sentivo tutta la responsabilità dell’averlo messo al mondo. Non ho potuto non farlo, ma sentivo forte la sfida della vita che si apriva per lui e per me con lui. Come afferma Claudio Magris il nome è il segno di un unico e irripetibile individuo.
Dare il nome è un gesto potente. Segna il passaggio in vita, l’avvio di una storia che, benché destinata a finire e a perdersi nella memoria, segue la sua strada, più o meno compiuta, più o meno decifrabile. Ogni nome fa il suo percorso: alcuni non fanno il tempo di apparire che se ne vanno, altri rimangono al palo, altri ancora riescono ad acquisire peso e significato.
Sopravvive chi riesce ad adattarsi meglio: chi dispone di tempo, salute e capacità, ma anche ha opportunità, soprattutto dei buoni punti di partenza.
Molti sono i dis-adattati e molteplici le forme d’esserlo. Scorrono veloci nella mia mente i nomi e i volti di coloro che hanno faticato a stare al passo, che sono scivolati inesorabilmente dietro, taluni mantenuti artificialmente a galla altri abbandonati. Alcuni non ci sono più.
Soprattutto da giovane temevo di cadere tra costoro. Temevo di non poter dare compimento alla vita; di non riuscire a recitare una parte della sceneggiatura; insomma, di non dare consistenza e sostanza al nome che mi è stato dato. Era e rimane una possibilità.
Ma il grande discrimine lo fa il luogo di nascita. Ne fanno le spese le masse di uomini e donne che hanno avuto la sventura di nascere in luoghi privi di condizioni idonee per realizzare la loro vita, come gli uomini e le donne del Nord Africa che in queste settimane attraversano il Mediterraneo per tentare di approdare in Europa.
Hanno tutte le ragioni per provare a cambiare le sorti della loro esistenza; vale il rischio della vita, del rimpatrio, del rimanere a mani vuote. È il tentativo di dare senso e significato alla loro vita, rovesciando sorti apparentemente segnate e definite.
Devo semplicemente ritenermi fortunato di non essere tra costoro? No, non basta.
Sento il dovere di riconoscere l’ingiustizia che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito; sento il dovere di non ostacolare coloro che provano ad uscire da una posizione che vincola e ingabbia, anche se ciò comportasse il ridimensionamento e la perdita di benefici acquisiti.

Foto: Pari Opportunità

1 commento:

  1. Mi sento fortunato... abbiamo deciso il nome che avrà nostro figlio e sento tutta la responsabilità e la gioia di una nuova vita che si sta affacciando in questo mondo segnato dall'ingiustizia e della disuguaglianza. Spero almeno di riuscire a far cogliere la necessità del rispetto per chi si ritrova a nascere e talvolta a sopravvivere in condizioni molto più difficili, ma che con dignità e coraggio conduce un'esistenza sempre "al limite"... e mi auguro di far cogliere altresì il valore di ciò che - non per merito - avrà a disposizione nella sua vita.

    RispondiElimina