lunedì 6 giugno 2011

Il delitto di ‘lasciar correre’, il dovere del riconoscimento e della riconoscenza

Sventola alto dal mio poggiolo il tricolore.
Sento il dovere di celebrare la vita, in particolare le vicende significative incontrate lungo il cammino. L’inizio e il fine vita sono i capisaldi, ma anche ciò che ha segnato una discontinuità tra il prima e il dopo. Contestualmente vivo con imbarazzo e disagio la stanca ritualità, spesso svuotata di significato, ridotta a bassa retorica, a mero trascinamento del passato.
Celebrare è un atto di riconoscimento e di riconoscenza.
Riconoscimento che l’essere umano e le sue vicende sono un valore assoluto, indicibile e incontenibile. Siamo frutto di ciò che ci ha preceduto e responsabili di interpretare il pezzo di strada che ci è concesso di vivere, per passare poi il testimone a chi ci succederà. Abbiamo il compito di fare la nostra parte, là dove ci troviamo e per quel che possiamo. Ed è ‘bello’ che ciò venga riconosciuto e non dato per scontato, gustato e non oltrepassato disinvoltamente, vissuto e non consumato svogliatamente.
Abbiamo la responsabilità di riconoscere, ma anche la responsabilità della riconoscenza, cioè di testimoniare ciò che è accaduto, di dare prova di qualcosa che è avvenuto, anche di quanto abbiamo ricevuto in ‘eredità’.
Ecco che è importante fermarsi, girarsi e guardare ciò che è alle spalle, ricordare e rendere esplicito. È abilitante per ben proseguire. È importante farlo alla luce del sole, testimoniando ciò che di significativo è accaduto, indipendentemente dal bello e dal brutto, dal buono e dal cattivo.
Eppure non è usuale né festeggiare né commemorare, non è diffusa l’urgenza della celebrazione, piuttosto persiste la cultura dell’adempimento, del ‘segnar tappa’ perché non si può non fare, ovvero perché così fan tutti. È triste: sintomo di sfilacciamento, di incompiutezza, anche di fallimento.
Non sono tante le occasioni della vita, individuale e sociale, da celebrare, e quando accadono abbiamo il dovere di non far finta di nulla; è un obbligo morale fermarsi e testimoniare, raccontare quella storia.
Su questo sfondo si colloca l’indifferenza e l’assuefazione che Claudio Magris e Giorgio Napolitano denunciano di fronte al dramma dei profughi del Nord Africa che, spinti dalla speranza di una vita migliore, provano ad attraversare il Mar di Sicilia per raggiungere le nostre terre, oppure, una volta reclusi nei centri di accoglienza, ingoiano lamette e pezzi di vetro per non essere rimpatriati.

Foto: The Phantom of the Indifference


2 commenti:

  1. Alessandro22/07/11, 23:39

    Apostrofato come ‘ipocrita’ sono stato stimolato ad approfondire il significato del termine.
    Ipocrita è colui che simula virtù o sentimenti che non ha, per ingannare, lusingare.
    Se questa è la percezione data, me ne rammarico, soprattutto – usando le parole di Giuseppe Dossetti – verso coloro che ho trascurato, offeso, forse scandalizzato.

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